mercoledì 23 maggio 2012

La qualità apparente

Non so perché, ma mi è sempre piaciuto entrare in un Comune, parlo proprio dell’edificio, della sede fisica.

Deve essere qualcosa di innato: mi ha sempre dato una sensazione di “appartenenza”. Di entrare in un luogo che è un po’ anche mio. Un ente fatto di cittadini che si occupa dei cittadini e del territorio. Forse una grande illusione, ma ho sempre avuto la sensazione che era lì che, come cittadina, avrei potuto trovare le risposte ai miei bisogni.

Come è lontana questa sensazione, dall’immagine dei “fannulloni” e di sistema inefficiente che l’immaginario collettivo ha ora assegnato all'ente e al dipendente  pubblico.

Nonostante questa “passione”,  ho sempre lavorato nel privato, fino a tre anni fa.

Nel terzo settore quello che, soprattutto nell’Italia centrale, ha rappresentato l’alter-ego dell’ente pubblico nella gestione dei servizi alla persona.

Ma già allora, vent’anni fa, le contraddizioni erano tante. Avevi sempre il contratto di lavoro in scadenza con la chiusura delle scuole. L’estate non eri pagata e spesso la tua retribuzione era legata alle ore effettive di presenza dell’utente, legata cioè  alle malattie della persona che dovevi seguire. Concetto abbastanza paradossale. Ma il personale era prevalentemente molto giovane e poteva accettare anche allora, forme contrattuali di questo tipo,  quasi considerandole una sorta di piattaforma temporanea, magari per pagarsi gli studi e  poter andare avanti.

Non che questo giustificasse la scarsa retribuzione e la precarietà, ma te la faceva accettare più volentieri.

Tre anni fa, ho fatto il mio ingresso nel mondo del lavoro pubblico ed ho lavorato per un paio d’anni contemporaneamente per il pubblico e per il privato, con una identità mista, che mi ha concesso di vedere le cose da più punti di vista nel medesimo momento.

Negli ultimi anni è avvenuta la progressiva esternalizzazione dei servizi precedentemente offerti dal pubblico in diversi ambiti di intervento: mense, trasporti, infanzia, ecc.

Si è progressivamente pensato che questa parola (esternalizzazione) fosse un po’ “magica”, la soluzione di tutti i problemi che hanno cominciato a gravare sugli enti locali dopo l'introduzione del cosiddetto “patto di stabilità” che, impone al bilancio dell’ente locale un limite tassativo alla spesa.

E’ una parola dunque che sembra risolutiva. E nell’Italia di Azzeccagarbugli è sempre facile trovare cavilli normativi per “mettere fuori” settori che prima erano interni:  ad esempio, basta  definire “ramo di azienda” un settore come  il trasporto locale e puoi esternalizzarlo, affidandolo ad un privato mediante gara d’appalto.

Dal pubblico verso il privato, dunque. 

Niente di male in apparenza. Quante volte si parla e si è parlato di sistema integrato dei servizi. Molti lavoratori del pubblico si sono arroccati all’inizio, quando hanno cominciato a vedere che i servizi venivano dati in gestione al privato. Del resto l’arrivo nel mercato lavorativo di  persone che hanno le tue stesse mansioni, ma  uno stipendio minore ed  un monte ore di lavoro maggiore, non può che far sentire la tua identità professionale minacciata.
E quando uno si arrocca, oggi, sembra antistorico. Perché la parola d’ordine è  flessibilità. Quindi vuol dire che se vuoi mantenere tutto com’è, non capisci che stai creando un blocco nell’evoluzione del sistema. Che in realtà  c’è posto per tutti. Che non si tratta di togliere, ma di aggiungere…

In linea di principio è tutto estremamente convincente. Il monopolio pubblico  può sembrare ideologico, quindi è giusto aprire ad altre realtà.
La cornice generale è appetibile e facile da vendere ed in effetti è stata facilmente venduta.

Quando si fanno gli appalti per la gestione dei servizi all’infanzia, per esempio, le amministrazioni locali continuano a dire che quei nidi sono e restano pubblici, perché rimane pubblica tutta la cornice: l’emanazione del bando, la creazione della graduatoria e l’attribuzione e l'incasso delle rette. La gestione invece viene affidata al privato che diventa appunto un ente gestore.

Che differenza c’è allora ad esempio tra un asilo nido “gestito” da un ente pubblico ed un asilo nido “gestito” da un ente privato ? Molte differenze sono sottili ed hanno rischi potenziali. Altre sono percepibili solo se sei dentro il sistema. 

L’utenza ad esempio, spesso non è in grado di coglierla e quindi questo rinforza l’idea che la strada da percorrere sia proprio quella corretta.
Spesso in effetti, quello che arriva all’utente finale può non essere molto differente, soprattutto se l’appalto è affidato ad un privato “serio”.
Anzi paradossalmente potrebbe sembrare anche migliore, perché l’attenzione che viene riservata all’utenza può essere ancora più marcata, perché “utente”, per il privato, significa cliente, mentre per il pubblico significa "semplicemente" cittadino.

E’ una differenza sottile ma che può presupporre premesse molto diverse, come il fatto che lo scopo sociale di un ente gestore privato è, prima di tutto, garantire il lavoro alla organizzazione e ai soci/dipendenti, mentre per un ente pubblico lo scopo primario è (o dovrebbe essere) soddisfare i bisogni di cittadini. Entrambi sono obiettivi importanti. E non è detto che l'uno escluda l'altro. Ma è importante avere chiaro in mente da quali premesse implicite si parte.

Non sto dicendo che pubblico voglia dire automaticamente efficienza, qualità, risposta certa ai cittadini. Sto dicendo che anziché andare a verificare dove si poteva recuperare efficienza e dove si doveva valorizzare la qualità si è detto che bisognava tagliare e buttare fuori. Anziché curare, si è deciso di tagliare facendo una operazione chirurgica: via il dente, via il dolore.

Eppure soprattutto in alcune regioni italiane i servizi pubblici rappresentavano, non molti anni fa, una vera e propria eccellenza. La qualità era presente, anzi era talmente presente che arrivavano tante delegazioni dall’Europa a vedere come si faceva a compiere quelle azioni di qualità.
Ma è arrivato il momento di tagliare, anche se paradossalmente, come ente locale hai anche dei soldi da spendere. Il patto di stabilità te lo impone. Quindi non si hanno alternative: se si vogliono tenere i servizi devono essere appaltati.

Ed ecco  il privato che arriva con la certificazione di Qualità Iso 9001. Si importa il modo di valutare la qualità delle aziende e lo si inserisce dentro i servizi pubblici. Per essere certificati ti devi attenere ad una serie di procedure, che contemplano di essere sempre messe per iscritto. E fino a qui tutto bene. Il problema è che chi certifica non ne sa niente dei servizi: ti costringe a costruirti una prigione, dentro la quale tu puoi solo dire come ti vuoi muovere. Ma la prigione resta. Devi compiere e registrare una serie di azioni  misurabili e quindi il modo di valutare assume prevalentemente un’ottica quantitativa.

Si archivia, si registra, si annota, ma questa valutazione comporta anche inesorabilmente la costruzione di una nuova idea di qualità. Una qualità apparente perché di carattere prevalentemente gestionale che contempla una quantità infinita di carte da compilare ed esibire all’ispettore che arriva in visita.

Questa assidua annotazione e registrazione di presenze,  flussi,  numeri, dà una perfetta illusione di controllo, che è molto rassicurante ma, purtroppo, fondamentalmente  irreale.

La qualità nei servizi (e, particolarmente, nei servizi alla persona) è fatta oltre che dalla qualità della organizzazione, anche e sopratutto dalla qualità delle relazioni che le persone instaurano e le relazioni, tramite il modello di controllo di valutazione aziendale, sono difficilmente discriminabili.

Paradossalmente tutto è sotto controllo, ma la qualità può non esserci.

Mi chiedo quanto diverso sarebbe stato se la “contaminazione” tra pubblico e privato avesse portato il pubblico ad aumentare il monitoraggio degli aspetti gestionali, ed il privato a condividere e ad individuare assieme al pubblico la giusta idea di qualità e degli appropriati strumenti di valutazione.

In realtà il tentativo in una regione come l’Emilia Romagna viene anche fatto, ma le certificazioni resistono e cercano di marcare il territorio. Ma quando sarà tutto esternalizzato, chi detterà i criteri per la valutazione della qualità di servizi che il pubblico non gestirà più?

E' possibile governare e controllare un processo che non si gestisce e, quindi, non si conosce ?


Pubblico e privato possono convivere ma il pubblico deve mantenere il “governo” della situazione altrimenti si è in balia del mercato, che ha leggi proprie, che non è detto, siano le leggi della pubblica utilità

E infine, il personale dell’ente gestore privato lega il suo lavoro alle vincite delle gare d’appalto. Questo significa, per il lavoratore, che oggi il lavoro c’è ma fra tre anni non è detto che ci sia ancora e nello stesso posto. Il pubblico per il quale l’ente gestore lavora avrà ancora bisogno di quel personale ? Se la risposta sarà no, il lavoratore a tempo indeterminato dovrà essere ricollocato sperando che ci siano altre posizioni libere, quello a tempo determinato dovrà invece rimettersi sul "mercato".

Per i lavoratori, per il servizio, per i cittadini, siamo sicuri che tutto questo sia qualità ?

Silvia.

3 commenti:

  1. Quello tra "pubblico e privato", se è meglio il primo o il secondo, se e quando il l'uno può sostituire l'altro e in che misura, è oramai diventato un rompicapo. E non ti nascondo che sovente ,per curiosità e non solo,me lo chiedo anch'io. E devo confessarti che non sono mai giunto ad avere una opinione netta, definita.
    L'esperienza diretta mi ha fatto toccare con mano medesime realtà in cui il pubblico staccava il privato ,in termini di qualità ,di parecchie leghe e realtà in cui bastava entrare in un ufficio publico per rovinarsi l'umore per tutta la giornata.
    Ho visto differenze abissali tra medesimi servizi pubblici tra una regione e l'altra( la cronaca del resto ce ne sottopone tutti i giorni ,impietosamente).
    E allora meglio privato o pubblico?
    Cominciamo a fare un pò di chirezza e mettere qualche punto fermo.
    In teoria il privato è più efficiente del pubblico non fosse altro che operando in un regime di mercato ( intendo per mercato il luogo dove domanda e offerta s'incontrano liberamente e le regole non sono solo scritte ma anche rispettate)è permanentetemente in competizione e quindi costretto a migliorarsi per sopravvivere o anche per conquistare fette di mercato sempre maggiori. Perciò ne consegue che a parità di servizi e di condizioni il privato stravince sul pubblico per efficienza , e rapporto prezzo /qualità.
    Ma se nell'analisi introduciamo altri elementi allora il punto fermo comincia a traballare e la certezza a vacillare.
    Per esempio se vogliamo che il servizio venga erogato a tutti i cittadini indipendentemente dalle loro possibilità; se vogliamo che il servizio raggiunga il cittadino che risiede nella più sperduta località del paese; se in definitiva introduciamo l'elemento socialità allora il pubblico è insostituibile.
    E qui s'impongono alcune domande.
    Il fatto che sia insostituibile può giustificare qualsiasi inefficienza? Può il settore pubblico ,in nome della socialità , sottrarsi a un qualsiasi tipo di verifica? E infine in che modo è possibile migliorarne l'efficienza senza degenerare?

    Io credo che il settore pubblico può e deve migliorarssi. Che può farlo senza scimmiottare il privato nè tanto meno annacquare la sua caratteristica pincipale. Credo che tutto questo sia possibile confrontandosi con enti pubblici di altri paesi geopoliticamente omogenei e sforzandosi di stare nella media e magari qualche volta di superarla.
    Ma qui si sconfina nella politica con tutti gli annessi e connessi.

    Ti ringrazio per gli interventi che trattando temi diversi rendono questo blog più vivace.

    Ti saluto.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Io credo che il punto sia proprio nel fatto che ci hanno convinti che dobbiamo scegliere tra pubblico e privato. Nell'ottica del consumismo e degli scaffali pieni di prodotti che non sai neanche tu perchè si differenziano, la tua scelta non può che essere condizionata dalla pubblicità, dall'efficacia, dall'efficienza, dal pulito più pulito... Pubblico e privato: due prodotti, un acquisto.
      IL parallelo è surreale ma non così fuori luogo: se ci dicessero e ci accorgessimo che nostro figlio ha dei problemi decideremmo di darlo in adozione e prendere ogni tanto dei bambini in affido? No, perchè è "nostro" figlio. Ecco io penso che le pressioni ideologiche e le parole che hanno inscatolato la realtà come comunismo, capitalismo, mercato, efficienza, non ci facciano più vedere e sentire che pubblico è roba nostra, non possiamo più dire "cosa" perchè anche questo abbinamento linguistico ci è stato drammaticamente rubato.
      Hai ragione ampliamo lo sguardo... guardiamo dove e come funziona nei paesi del nord europa e poi usciamo dagli schemi in cui ci hanno incasellato, recuperiamo il sentimento di cittadinanza, e
      torniamo a sentire che politica è la guida delle nostre polis.
      Silvia

      Elimina
  2. La dialettica tra pubblico e privato è stata, negli ultimi anni, abilmente spostata solo sul piano della efficienza invece è - prima di tutto - una questiona di appartenenza. Che è poi l'essenza della democrazia. Io credo che attorno ad alcuni beni/servizi essenziali per la sopravvivenza dell'individuo e della società nel suo complesso, i cosiddetti "beni comuni", la gestione pubblica, trasparente, veramente democratica, sia l'unica via possibile, senza se e senza ma.
    Per tutto il resto ... c'è.. Mastercard !

    RispondiElimina