sabato 19 ottobre 2013

Gli oggetti del desiderio



E’ domenica e sono dentro un ipermercato.

E’ già una stranezza di per sé,  attenuata solo dal fatto che fuori piove e quindi sembra sensato cercare un posto dove stare al chiuso.

La musica serpeggia ovunque, ci sono stands con depliants e rappresentanti che cercano di farti assaggiare, sentire, provare il loro prodotto.

La gente appare frenetica, non felice. Indaffarate nel fare la spesa, nell’entrare e nell’uscire dai vari negozietti del centro commerciale, con un atteggiamento produttivo.
 
Sembrano tutti in preda ad una forma di autismo collettivo: le persone infatti, attraversano il centro entrando per la scala mobile e riuscendone continuamente.
Sembrerebbe un video gioco dove le persone sono sempre le stesse che entrano e che escono, invece sono persone diverse ma che compiono tutte gli stessi gesti.
 
E’ come se fosse stato azionato un motore invisibile che ci spinge all’acquisto, tanto che ormai si è diffuso un nuovo problema psicologico quello dettato  dalla pulsione allo “shopping compulsivo”.
 
Gli oggetti hanno acquistato infatti, gradualmente, ma inesorabilmente, un posto importante nella vita della persone.  Un posto sempre più centrale.
E’ diventato molto più breve invece il tasso di saturazione del desiderio.
Vedo un oggetto, lo desidero, lo acquisto, e dopo poco, non ricordo più neanche perchè lo desideravo.
 
E’ vero i tempi stanno cambiando. Ci troviamo in tempo di crisi.
Quindi a volte, l’equazione si interrompe prima e diventa: vedo un oggetto, lo desidero e vorrei acquistarlo ma non posso farlo e mi sento frustrato.

Comunque a partire dalla ormai lontana rivoluzione industriale gli oggetti prodotti in serie sono diventati tanti, sempre più belli, sempre più necessari, sempre più desiderabili.
Il mancato possesso di oggetti oltre che far provare invidia e gelosia sociale, determina un senso di alienazione individuale.
 
Basta pensare agli smartphones, ai tablets, oggetti senza i quali sembra a molti quasi di non fare parte della collettività (e in un certo senso è così se parliamo di collettività “virtuale”).
Penso che questo impulso innestato gradualmente nel sistema con la produzione di massa di oggetti sempre più evoluti,  più estetici,  più al nostro “apparente” servizio, ci abbia resi dipendenti dal possedere  molti oggetti.

Non mi interessa fare una valutazione moralistica. Non credo sia utile dire cosa sia bene e cosa sia male. Ognuno di noi ovviamente fa le sue valutazioni.
Siamo cresciuti in un sistema economico in espansione da un punto di vista produttivo.
E ora che si è invertita la rotta e che molte persone sentono che non gli è più possibile non solo fare acquisti superflui, ma anche quelli più basilari, sta cambiando proprio la cornice mentale di riferimento.
E questo provoca oltre che ansia e senso di privazione, anche disorientamento.

Ci troviamo in un sistema “paradossale”: se non riusciamo ad acquistare stiamo male perché abbiamo meno beni di quelli che vorremmo; se le persone non acquistano la società produce meno beni; con la diminuzione di produzione e vendita di beni diminuisce la  “ricchezza” complessiva, la gente perde il lavoro e non può acquistare nuovi beni.

D’altro canto questo è un sistema di riferimento “chiuso” che, proprio perché tale, non trova al suo interno vie di uscita. 

E’ un sistema che non vede ad esempio che la continua produzione di nuovi beni/oggetti determina un accumulo di rifiuti di impossibile smaltimento, l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, dei fiumi, che è la cornice allargata all’interno del quale sta il nostro sistema chiuso.
 
E se viene messo in pericolo l’ambiente di vita del sistema, anche qui, gradualmente ma inesorabilmente, viene minata la reperibilità dei beni di primaria necessità, come ad esempio l’acqua.
 
Si tratta di cerchi concentrici.
Non credo che un cerchio possa o debba escludere l’altro.
I beni (per quanto il nome sia fuorviante) non sono di  per sé né negativi, né positivi.

Ma la quantità di produzione che si realizza, le modalità in cui i beni vengono prodotti, il loro smaltimento, le “qualità” che vengono attribuite al bene con la pubblicità e che concorrono a formare l’identità dell’individuo se posseduto, devono essere pensate nel loro insieme e non in modo frammentato e autoreferenziale.

Insomma: quali oggetti e servizi produrre? Come produrli e in che condizioni? Con quale smaltimento? Cosa significa possedere certi oggetti, ossia che messaggi vengono mandati  con la pubblicità?
Si può produrre meno o produrre in modo diverso, diventando forse tutti un po’ meno ricchi di “oggetti”?

Mi viene in mente che la crisi economica che stiamo attraversando ora,  all’uscita dal secondo dopoguerra, avrebbe portato comunque preoccupazione, stress e tensione, ma l’economia era ancora diversa.

Gli oggetti non erano ancora diventati così desiderabili. O forse c’era in ogni persona ancora vivo il desiderio di un cambiamento, che non necessariamente era un mondo pieno  di oggetti. Gli oggetti potevano ancora essere immaginati per facilitare la quotidianità, per aiutare l’uomo a vivere meglio.

Forse è un po’ retorico e chissà quali erano i reali pensieri di questo ricordo che è frutto di un racconto che è arrivato a me. Ogni tanto però mi viene in mente e sento che è una “vera” storia.

E’ la storia di una donna del dopoguerra, Elisabetta (Betta), che lavorava nel negozio alimentari di famiglia. Aveva quattro figli e il marito senza un braccio, perché era invalido di guerra. 

La situazione del negozio rendeva la famiglia un po’ più agiata rispetto a quella degli abitanti del paese dove vivevano.
 
Betta, da piccola, aveva conosciuto una grande povertà e non l’aveva dimenticata. Per questo la sera quando cucinava, metteva sempre dosi sempre maggiori, di pasta, di polenta, di uova…. perché era sempre possibile che qualcuno, tornando a casa e, non avendo da mangiare per la cena, bussasse alla loro porta.
 
Betta sapeva anche i nomi di alcuni di loro che sicuramente avrebbero bussato e non poteva immaginare di lasciarli fuori con la loro fame.

Ecco, personalmente, vorrei saper provare ancora qualche desiderio come questo.

Silvia.

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