sabato 6 aprile 2013

Il Timer


“Educare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco”
(William B. Yeats)

La maestra Anna mi viene vicino con un tono un po’ afflitto. Una mamma le ha raccontato cosa sta succedendo nella scuola dell’infanzia di suo figlio e lei non se ne capacita.
 
Le maestre del bimbo, che ha quattro anni, dicono che  è molto oppositivo.
 
Prima di Natale spingeva gli altri bimbi e  ora fa delle cose strane. Ad esempio si tira giù i pantaloni e fa finta di fare la pipi come il suo nuovo gattino, oppure quando per merenda c’è il latte fa finta di bere dal contenitore come se fosse una ciotolina: alle maestre è sembrato che ci sputasse dentro.
 
La mamma è sconvolta non tanto da quello che fa sua figlio, ma dall’atteggiamento delle maestre. Sembrano molto sicure di sé: “il bimbo fa delle cose strane e ci mette  in difficoltà”.
 
La maestra Anna cerca di capire: “ma ti hanno parlato? Avete lavorato assieme?”.
 
La mamma le risponde che nell’ultimo periodo, lei a casa è stata molto vicina al figlio, ha cercato di capirlo. Ha anche pensato che forse sbaglia, perché non riesce a vedere la gravità della situazione. Tutto sommato infatti, per lei suo figlio è facile:  fa delle sciocchezze è vero, ma è ancora piccolo e lo si recupera facilmente.  La sorella  ad esempio, è decisamente più vivace.
 
A casa le cose vanno meglio, invece a scuola no.
 
Così le maestre hanno intensificato le punizioni. Per esempio per il discorso del latte l’hanno tenuto seduto abbondantemente e poi l’hanno anche fatto mangiare da solo.

Le punizioni devono essere esemplari dicono le maestre, perché altrimenti anche gli altri possono sentirsi autorizzati a fare le stesse cose. 
 
Nell’ultimo colloquio le maestre le hanno detto che non serve attivare altre strategie educative, il bimbo o meglio la mamma dovrebbero andare dallo psicologo, che può aiutarli a cambiare.

La mamma è sconvolta. “Lo psicologo? Ma perché sta facendo delle birichinate?”.
 
Affranta e avvilita è andata alla ricerca di un consiglio dalla maestra Anna, sperando, parlandone, di capire meglio perché si ritrova in questa situazione.
 
“Quello che non capisco è come mai hanno dato una punizione così lunga, il timer deve durare cinque minuti!”.
 
La maestra Anna è sorpresa: “timer, quale timer?”. 

“Eh sì, c’è anche un altro bimbo nella classe che è stato mandato dallo psicologo, il quale ha consigliato di usare un timer per le punizioni, altrimenti non ricordando più chi era in punizione e chi no, i bambini andavano in giro per la classe… Il problema è stato che quando i bambini hanno visto il primo bambino con il timer, l’hanno voluto anche loro: quindi ora ognuno ha il suo timer per la punizione!”.
 
Il volto di Anna è tra lo stupefatto e la tristezza profonda. Immagina la classe, di ventinove bambini, ognuno con il suo timer per riuscire a svolgere efficacemente la punizione e paradosso dei paradossi, contento di farla per poter disporre del timer.
 
Anna mi dice : “ma come è possibile che siamo arrivati a questo?”.
 
Inutile dire che non è tutta responsabilità delle insegnanti. Quando sei da sola, con pochissima compresenza, con ventinove bambini, i tuoi ideali educativi sono messi a dura prova e possono spesso soccombere. La cornice di riferimento dice alle insegnanti che è possibile che le loro classi abbiano sempre più allievi dentro lo stesso spazio: nessuno sembra preoccupato delle difficoltà che ne possono scaturire. Eppure il rapporto numerico non è l’unico indice, ma può fare sicuramente la differenza nella qualità del modo di lavorare.
 
Ho contato, nella foto di quando ero bambina, nella mia scuola “materna” gestita da religiose,  circa trenta bambini. I problemi di disciplina erano affrontati molto più severamente (quanto tempo passato nell’angolino della sezione!) ed i pomeriggi si trascorrevano poggiati con la testa e il busto sui banchi facendo il sonnellino, o stando zitti, anche se non avevamo sonno.
 
Il concetto di “obbedienza” veniva veicolato molto chiaramente. Concetto condiviso, anche se forse si capivano o intuivano poco le conseguenze che avrebbe potuto avere poi sulla struttura sociale del futuro. Nulla sicuramente a che vedere con l’autodisciplina proposta da Maria Montessori.
 
Siamo rimasti o siamo tornati di nuovo lì?

Non posso non pensare alle parole di Myrtha Chokler nel suo articolo “Intervento precoce nella prevenzione della sindrome di iperattività e dei disturbi attenzionali”:
 
Quale uomo e quale bambino vogliamo aiutare a crescere e ad essere? Un soggetto autonomo, libero, con fiducia in se stesso e solidale? O un essere sottomesso, dipendente dal riconoscimento permanente dell’altro, il cui interesse per il mondo circondante è legato soltanto a conquistare soltanto premi o evitare le punizioni, un essere stimolato alla rivalità –“vediamo chi vince?”-  un essere che deve ad ogni momento fare un esame per essere accettato –“vediamo se sei capace di…”?.  Se invece si sta dalla  parte del soggetto autonomo, libero, che si sente e si vive come soggetto e non come assoggettato, allora qual è il ruolo dell’adulto, della società, dei professionisti per tutelare il rispetto per la persona e il suo diritto ad essere riconosciuta come chi è, proprio così com’è, al di là delle differenze, degli svantaggi o della disabilità?. Abbiamo imparato a riconoscere il bambino essenzialmente come un soggetto di azione e non soltanto di reazione ad ogni istante e luogo, per cui le idee della Pikler e la sua pratica, le sue concezioni sull’autonomia e la sicurezza affettiva dimostrate in bambini fisicamente sani, ci confrontano con la sfida di dimostrare che questi postulati fondamentali sono completamente pertinenti ed efficaci per tutti i bambini, inclusi coloro che soffrono di una considerabile disabilità vissuta ed espressa ad ogni istante nel suo livello. ( http://www.ifra.it/prima-infanzia.php)

Dove è finito questo tipo di pensiero?

La maestra Anna, che insegna in una scuola primaria mi dice: 

“Lo so che è difficile, ma i bambini mi dimostrano che basta veramente poco per raggiungerli. Negli ultimi anni, ad esempio, un pomeriggio alla settimana, realizzo in classe il laboratorio delle emozioni. I  bambini possono scrivere qualcosa che li ha fatti stare male o bene, in classe o fuori, e se firmano il biglietto vuol dire che ne vogliono parlare direttamente con la classe.  Ebbene una mamma mi ha detto che hanno dovuto rimandare assolutamente l’appuntamento che avevano con il dentista perché sua figlia non poteva mancare al laboratorio delle emozioni. All’inizio qualche genitore era scettico e mi ha detto  ma lei vuole sapere i fatti di casa nostra. Non ci sta molto bene. Allora ho dovuto spiegare loro meglio quale era la finalità. Dei fatti in sé non mi interessava niente. Ma delle emozioni che stavano vivendo i bambini sì. Perché se i bambini sono bloccati o presi dalle loro emozioni tutto quello che io insegno non passa…. . Tra l’altro io quel pomeriggio faccio italiano, anche se in un altro modo…”. 

E’ vero. Stiamo cercando di fare finta che il corpo e la mente siano due entità scisse. Il nervo vago che collega il cervello della testa a quello addominale è per i più, un perfetto sconosciuto.

I bambini sono diventati dei contenitori vuoti da riempire (la vecchia tabula rasa ahimè) e non individui da conoscere e con i quali costruire assieme il sapere.
 
E’ l’epoca di internet, inglese, impresa. Verifiche, test, prove.  Tutto, apparentemente, sotto controllo  Nulla di male in effetti, anzi, le nuove tecnologie possono essere uno strumento in grado di velocizzare le comunicazioni, di metterci in rete, ecc., ecc..
 
Ma il problema nasce nel momento in cui la scuola si riduce solo a questo.
 
Infatti i nostri stati d’animo, le nostre motivazioni, le nostre molteplici intelligenze non vogliono essere addestrate ma educate. E’ una differenza decisiva.
 
Altrimenti le emozioni non ci stanno ed escono piano piano, come il vapore da una pentola a pressione… Così ad esempio il figlio dell’amica della maestra Anna, quando le insegnanti dicono “state tutti zitti, mentre leggiamo non si parla”, lui tace, ma comincia piano piano, poi un po’ più forte a muovere il piede in terra, e le maestre si indispettiscono, le tensioni crescono, ed escono fuori di nuovo i timer.
 
Ricordo ancora il mio Professore di inglese in prima media. Era la prima volta che sentivamo parlare in inglese. Abitavo in un piccolo paese della provincia del centro Italia.
 
L’Italia era molto diversa allora.  I bambini disponevano di meno nozioni e di tanto cortili.
 
Ricordo come fosse ieri, il momento in cui entrò in classe: un signore alto, pelato, bruttino forse, ma bello ai nostri occhi grazie ad un sorriso che arrivava da un orecchio all’altro.
 
Non disse una parola in italiano.
 
Iniziò a parlare in inglese e continuò per circa quindici-venti minuti senza mai fermarsi.
 
All’inizio stupore, poi sorrisi, poi risate convulse di tutta la classe. Il Professore continuava a parlare in inglese e a ridere anche lui, guardandoci, esprimendo nel suo sguardo la voglia di stare con noi.
 
Ecco perché mi è sempre piaciuto l’inglese.
 
Nonostante molti altri insegnanti mi abbiano poi tolto molte sicurezze e abbiano reso la lingua straniera un insieme di regole sterili, noiose e difficili.
 
Non posso dimenticare quel primo giorno e quelle risate.

Silvia.

1 commento:

  1. Silvia hai scritto un bellissimo post e ce ne vorrebbero altri tre di commento. In effetti c'è da chiedersi se oggi questa "società" (non ci voglio mettere solo la scuola) voglia crescere dei...soggetti autonomi, liberi, con fiducia in se stessi e solidali oppure invece delle persone sottomesse, e dipendenti dal riconoscimento permanente degli altri, con interessi legati a conquistare premi o evitare le punizioni, perennemente stimolati alla rivalità...". Oggi più di quando noi eravamo giovani, l'esigenza è emergere, essere primi. Perchè la attuale società è fatta per i "forti", i "furbi", e non per i "deboli", i "riflessivi". Oggi chi riflette un secondo di più di un "clic" di un mouse è considerato un mezzo ritardato. Oggi i tempi sono accorciati, bisogna mordere e scappare. Chi si ferma sembra perduto. E allora bisogna costruire un "uomo" che sia in grado di mordere e scappare. Se ci pensi, questo modo di educare è perfettamente in linea con la volontà di fare dell'uomo un "Mangiatore" del mondo. Della Natura. Crisi sociale e crisi ambientale e crisi economica sono in ultima analisi tutte connesse, mi verrebbe da dire..."avviluppate", da una crisi dell'essere umano. Parafrasando Eric Fromm, oggi conta "avere", non conta "essere". E la scuola, come la società, si adegua a questo assioma. Non può durare, la Natura stessa ci dirà che così non si può fare. L'ho spiegato nel racconto di fantascienza precedente. Stiamo dicendo cose simili, argomentando su problemi diversi. Prima o poi un convegno che metta assieme scienziati naturali e sociologi dovrà pure essere fatto. Prima che sia troppo tardi.

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